giovedì 1 marzo 2007

EFFETTO DELLA GLOBALIZZAZIONE CAPITALISTICA: CRESCONO I PROFITTI, CALANO I SALARI.

EFFETTO DELLA GLOBALIZZAZIONE CAPITALISTICA: CRESCONO I PROFITTI, CALANO I SALARI. DALLE DELOCALIZZAZIONI E DAL LAVORO PRECARIO UN MAGGIORE SFRUTTAMENTO DELLA FORZA LAVORO. DOMANI IL PRC PRESENTA LE SUE PROPOSTE

Un effetto del processo di globalizzazione capitalistica è rappresentato dall’incremento continuo dei profitti e dal contemporaneo calo dei salari nei paesi maggiormente industrializzati, dove, sia pure con qualche incidente di percorso, le borse corrono freneticamente, crescono a dismisura i compensi dei grandi manager e le aziende accumulano utili come non mai.

E’ il risultato della risposta che le imprese hanno dato alla concorrenza fatta loro dai cosiddetti paesi in via di sviluppo: una corsa a contrarre il costo della manodopera attraverso la delocalizzazione selvaggia delle produzioni e l’ampliamento delle professioni atipiche, sulla base del principio neoliberista della “flessibilità” che ha prodotto un numero crescente di giovani lavoratori precarizzati e privi di diritti.

Secondo le stime più recenti, se all’area euro aggiungiamo l’Inghilterra, il Giappone, il Canada e gli Stati Uniti, si ha che dal 2002 al 2006 la quota del reddito toccata ai salari è scesa dal 56 al 54 per cento, mentre quella andata al profitto è salita dal 10 al 16 per cento.

Ed è matematico l’effetto che su questo processo è stato prodotto dalla precarizzazione: la prova del nove ci è fornita dalla Confederazione europea dei sindacati autrice di uno studio, che accompagna una risoluzione a sostegno della contrattazione collettiva, nel quale si attesta che dai 25milioni di precari esistenti nel 2000 in seno all’Ue a 25 Stati, si è arrivati ai 37milioni del 2005, con un balzo di 12 milioni in appena un quinquennio. E l’Italia ha diligentemente recitato la sua parte su questa scena, toccando la cifra di 3milioni di precari ufficiali, ai quali vanno aggiunti gli altrettanti che sono mascherati dietro l’etichetta di “lavoratori autonomi” per sfruttarne fino in fondo il lavoro dipendente che di fatto svolgono.

Un processo al quale si deve che anche da noi la quota dei nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato sia scesa abbondantemente al di sotto del 50 per cento del totale. Né ci può consolare il fatto che il record continentale in materia sia detenuto dalla Francia con il suo 80 per cento.

Quello europeo è un panorama fatto di poche luci ed infinite ombre, per cui potrebbe capitarci anche di peggio qualora prendessimo esempio da quanto fatto in Germania con i cosiddetti “mini jobs”, particolari contratti che avrebbero dovuto favorire la seconda occupazione di chi già un lavoro ce l’ha e che hanno invece creato un esercito di 5milioni di giovani che campano con 400 euro al mese, senza limite di orario.

Il paese più “virtuoso” è l’Olanda, dove la popolazione lavorativa flessibile si è ridotta dal 10,3% del 1998 al 6,6% del 2003, ma anche qui la liberalizzazione introdotta nel lavoro interinale ha fatto sì che per un lavoratore su quattro le agenzie che li occupano si siano “dimenticate” di versare i relativi contributi.
Quanto all’est europeo, le cose non vanno meglio. Come in Polonia, dove il balzo in avanti è stato enorme, con i lavoratori a tempo determinato che sono passati dal 4 per cento del 1999 al 26 per cento del 2005, con un picco di 60 punti fra i giovani che sono spinti ad emigrare alla ricerca di un’occupazione più certa.

Il fatto che gran parte degli imprenditori consideri i lavoratori come un bene del quale si può fare a meno, non ha certo aiutato i processi di formazione della manodopera: la conseguenza è che la percentuale degli occupati che ha partecipato a corsi specifici è scesa dal 30,6 per cento del 2000 al 27,3 per cento del 2005 e tra gli interinali si arriva al 18%, con ciò negando la necessità dell’apprendimento permanente che ci avevano raccomandato come chiave per passare agevolmente da un’occupazione all’altra.

Per ultimo, il capitolo che la Confederazione dei sindacati europei dedica all’Italia, dove si mette nero su bianco iche negli anni del governo Berlusconi sono state introdotte “diverse tipologie di contratti di lavoro che permettono di destabilizzare i diritti essenziali”. Anche i sindacati europei indicano quale via maestra per risolvere il problema, la promozione “di comportamenti positivi dei datori di lavoro offrendo incentivi fiscali a parafiscali a coloro che non fanno ricorso al lavoro precario”, proprio come sta scritto nel programma dell’Unione e riconfermato nei 12 punti proposti per la continuazione dell’azione di governo.

Per quanto riguarda Rifondazione comunista, il nostro partito ha elaborato delle precise proposte per addivenire ad una nuova legislazione del lavoro che verranno presentate ai perugini domani sera, venerdì 2 marzo, alle ore 18, nella Sala della Vaccara di Palazzo dei Priori, dove, dopo l’introduzione del segretario regionale, Stefano Vinti, interverranno Giuliano Granocchia, assessore al lavoro della Provincia di Perugia, Carlo Guglielmi, del Cemtro Diritti del Lavoro-SE “Pietro Alò”, e, per le conclusioni, Roberto Rizzo, del Dipartimento Nazionale Lavoro del Prc. Coordinerà Luciano Della Vecchia, coordinatore Circoli Prc Perugia.

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