mercoledì 8 novembre 2006

LAVORO NERO, EVASIONE FISCALE E NUOVA SCHIAVITU’: TRE PIAGHE CHE VANNO ESTIRPATE PER FAR CRESCERE L’ITALIA. OLTRE 46.000 UNITA’ DI LAVORO STANDARD SONO IMPIEGATE IN UMBRIA IN ATTIVITA’ CLANDESTINE

L’impegno del governo dell’Unione nella lotta al lavoro nero e all’evasione fiscale che a questa si lega trova piena giustificazione nelle cifre, assai allarmanti, che sono state rese note di recente dalla Cgia di Mestre riguardo alla proporzione che hanno assunto tali fenomeni in Italia.

Secondo il centro studi degli artigiani di Mestre, il giro d’affari di queste attività illecite, che sfuggono ad ogni controllo, sfiorirebbe ormai i 100 miliardi di euro all’anno e di conseguenza al fisco italiano verrebbero sottratti, sempre ogni anno, qualcosa come 48,145 miliardi di euro, una cifra iperbolica, più che doppia rispetto alla Finanziaria che si sta varando per rimettere in carreggiata il Paese e che ha creato diffusi e non sempre giustificati allarmismi.

Anche l’Umbria, nel suo piccolo, alimenterebbe questa attività illegale nascondendo allo Stato un imponibile di 1 miliardo e 423 milioni di euro, corrispondente ad un’evasione pari a 688 milioni di euro annui. Un furto che costa in ad ogni cittadino umbro 825 euro all’anno, appena qualche spicciolo in meno rispetto alla media nazionale che assomma a 840 euro per abitante.

Questo sul piano economico, cosa che costituisce già un fatto gravissimo, tale comunque da rendere per davvero incomprensibili le lamentazioni contro il fisco di chi, come il cavaliere di Arcore, vuol giustificare un comportamento truffaldino che ci impoverisce tutti indistintamente. Ma oltre all’aspetto economico dobbiamo ancor più valutare quello di natura sociale che si lega a tale pernicioso fenomeno, avendo ben presente che ad essere colpiti più di altri sono i lavoratori (sempre la Cgia ha calcolato 3.238.000 unità di lavoro standard complessive) che vengono clandestinamente reclutati da imprenditori senza alcuno scrupolo.

Fatte le debite proporzioni in Umbria verrebbero impiegate annualmente oltre 46.000 unità di lavoro standard.

Questi lavoratori, non solo ricevono in cambio delle loro prestazioni retribuzioni da fame, al di fuori di ogni regola e di ogni contratto, ma non viene loro riconosciuto alcun diritto elementare: per loro non si parla di ferie, di orario di lavoro umano, di permessi retribuiti né, tanto meno, di una pensione da godere allorché saranno troppo vecchi per continuare produrre.

Ed abbiamo anche il dovere di interrogarci, per proporre i giusti rimedi a questo vergognoso stato di cose, su quale base avvenga questo reclutamento, non ignorando che questa massa di disperati è costituita soprattutto da lavoratori immigrati, arrivati da noi alla ricerca di un destino migliore, che la Bossi-Fini relega in una situazione di semiclandestinità e di estrema marginalità, tale da spingerli ad accettare anche le condizioni più inumane d’impiego, pur di racimolare qualcosa che permetta loro di sopravvivere.

Abbiamo conferme di ciò dalle denunce che si infittiscono in questi giorni, grazie alle quali abbiamo appreso che nella settima potenza industriale del mondo è tornata in auge la figura del “caporale” di triste memoria: quel “mezzano” che un tempo, in specie nel Mezzogiorno, reclutava tutte le mattine, per un tozzo di pane, i braccianti affamati che servivano quotidianamente al proprietario terriero.

Solo che queste prassi tremenda si è adesso diffusa anche nelle regioni più sviluppate del Paese, probabilmente anche nella nostra Umbria, facendoci tutti riprecipitare in un nuovo Medio Evo che determina situazioni di vera e propria schiavitù: un’espressione cruda, ma più che giustificata nei confronti di chi si vede costretto a sgobbare in un campo, dall’alba al tramonto, per 2-3 euro al dì.

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