martedì 31 ottobre 2006

TROPPE MICRO E PICCOLE IMPRESE FRENANO LO SVILUPPO...

TROPPE MICRO E PICCOLE IMPRESE FRENANO LO SVILUPPO DELL’ITALIA E DELL’UMBRIA. DOBBIAMO AIUTARLE A CRESCERE

Secondo l’Archivio statistico delle imprese attive (ASIA), nel 2004 le piccole imprese italiane, quelle al di sotto dei 50 addetti (micro imprese fra 1 e 9 addetti, piccole imprese fra 10 e 49 addetti), hanno prodotto mediamente un valore aggiunto di 30 mila euro per addetto, mentre il valore aggiunto di quelle con oltre 50 addetti (medie imprese fra i 50 e i 249 addetti, grandi imprese con 250 e più addetti) è stato di 56 mila euro.

Le difficoltà del sistema produttivo italiano stanno tutte in queste cifre e ciò perché nel nostro Paese risultava in quell’anno (ma da allora le cose non sono certo migliorate) una concentrazione abnorme di aziende con meno di 50 addetti, per una percentuale del 99,4% sul complesso di 4,2 milioni di unità produttive che venivano censite dall’Istat. Di contro, le aziende con almeno 50 addetti erano soltanto lo 0,6% del totale: 24.159 in tutto, che davano però lavoro al 31% degli addetti e addirittura al 46% dei dipendenti (4,9 milioni sui 10,6 complessivi).

La differenza che corre fra addetti e dipendenti è presto detta: nel novero dei primi, che in Italia corrispondevano nel 2004 a circa 16 milioni di persone, sono considerati anche i cosiddetti “indipendenti” che, pur non figurando a libro paga, operano continuamente in seno all’azienda. Per lo più si tratta dei titolari e dei loro familiari che risultavano essere circa 5,4 milioni.

La produttività nelle piccole aziende era, dunque, considerevolmente inferiore a quella registrata dalle medio-grandi, ma anche il trattamento salariale riservato ai dipendenti era ben diverso: infatti la retribuzione media lorda per dipendente risultava di 17.400 euro annui nel comparto sotto i 50 addetti e di 25.200 euro in quello superiore. Come pure ben diversa era la capacità di investire: mediamente 4.700 euro all’anno per addetto al di sotto di quota 50, contro gli 11.300 euro dai 50 in su.

Basta un semplice calcolo per avvertire l’enorme sproporzione che si produceva (e si produce tutt’ora) fra un’azienda con soli 5 addetti, che aveva appena 25.500 euro da investire ed un’azienda con 100 addetti che allo stesso fine poteva mettere in campo qualcosa come 1 milione e 130 mila euro.

Tutto ciò per ribadire che,se questa estrema parcellizzazione del nostro sistema produttivo si è rivelata in anni passati la carta vincente che l’Italia poteva giocare sui mercati internazionali, grazie alla maggiore flessibilità che ci consentiva di rispondere più prontamente al mutare della domanda, oggi si sta rivelando il maggiore handicap a nostro sfavore. Ciò perché allora il “Made in Italy” operava in posizione pressoché di monopolio in settori a basso contenuto tecnologico, potendo per di più contare su una manodopera a minor costo rispetto agli altri Paesi occidentali esportatori, una condizione che è venuta meno con l’affacciarsi in questi mercati di numerosi Paesi emergenti che sanno “riprodurre” i prodotti tipici del “Made in Italy” meno sofisticato, potendo per di più contare su una manodopera a costi notevolmente inferiori rispetto ai nostri.

La salvezza della nostra economia passa, dunque, nel rinnovamento delle nostre produzioni, o meglio ancora nel passaggio delle nostre imprese in settori tecnologicamente più avanzati. Ma per fare ciò sarebbero necessari i maggiori investimenti che le nostre micro e piccole imprese non sono nelle condizioni di sostenere, fattore che ne limita la capacità di misurarsi nei mercati internazionali ed anche quando riescono a farlo, la loro propensione ad esportare risulta comunque considerevolmente ridotta. Alcune cifre a conferma di ciò: l’incidenza delle vendite all’estero sul fatturato si avvicina al 30% per le nostre micro e piccole imprese che esportano, sale al 37% per le medie imprese e tocca il 40% per le grandi imprese. E va anche considerato che più in generale gli indicatori economici rilevati nelle imprese esportatrici risultano migliori rispetto a quelli delle aziende che si rivolgono unicamente al mercato nazionale.

Questo il quadro italiano, non certo favorevole, all’interno del quale si colloca l’Umbria, regione nella quale, come ben sappiamo, la concentrazione di micro e piccole imprese è ancora più alta rispetto alla media nazionale. Un fatto che ci deve far ragionare sugli strumenti che le Istituzioni pubbliche debbono contribuire a costruire per aiutare le nostre aziende ad assumere una dimensione che consenta loro di meglio posizionarsi sui mercati, compresi quelli esteri.

Dal recente rapporto Mediobanca-Unioncamere abbiamo appreso che la dimensione della medio-impresa è stata negli anni più recenti la nostra “carta vincente”, assai più della grande-impresa, riuscendo a conservare quella caratteristica di flessibilità alla quale abbiamo fatto prima cenno, aggiunta ad una spiccata capacità di lavorare secondo una logica di sistema” con imprese di altre dimensioni, di altri territori e di altri settori. Ciò ha fatto sì che negli ultimi 10 anni l’export delle prime si sia incrementato del 52,5% a fronte del 25,2% delle seconde.

L’imperativo è, perciò, quello di favorire il salto delle piccole imprese umbre verso questa media dimensione, per consentire loro di investire di più nelle risorse umane, realizzare e sviluppare l’innovazione, meglio interagire con altre imprese, cogliere appieno le opportunità offerte dalla rete.

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