LA SITUAZIONE ECONOMICA E SOCIALE DELLUMBRIA NEL QUADRO DELLE DIFFICOLTA DEL PAESE
Dellimpietosa fotografia dellItalia scattata dallIstat, laspetto che più colpisce è quello delle disuguaglianze che ci colloca agli ultimi gradini in Europa: il fatto che il 7,5% delle famiglie italiane, qualcosa come 4,5 milioni di persone, una volta su quattro, non riesca a mettere a tavola un pasto decente e che il 30% di queste, pur limando su tutto, non riesce ad arrivare alla fine del mese e tanto meno a far fronte agli immancabili imprevisti.
Dellimpietosa fotografia dellItalia scattata dallIstat, laspetto che più colpisce è quello delle disuguaglianze che ci colloca agli ultimi gradini in Europa: il fatto che il 7,5% delle famiglie italiane, qualcosa come 4,5 milioni di persone, una volta su quattro, non riesca a mettere a tavola un pasto decente e che il 30% di queste, pur limando su tutto, non riesce ad arrivare alla fine del mese e tanto meno a far fronte agli immancabili imprevisti.
La risposta più convincente allinterrogativo sul perché siamo caduti così in basso sta nel fatto che negli ultimi anni lItalia è rimasta costantemente al palo nella corsa allo sviluppo, perdendo tutti i treni che le sfrecciavano accanto: quelli superveloci delle grandi tigri asiatiche (Cina e India fra tutte) il cui Pil marciava a due cifre (oltre il 10% annuo), quelli un po più ansimanti di Usa e Giappone, che si collocavano comunque oltre il 4%, e, imperdonabilmente, non è riuscita ad accomodarsi neppure sullaccelerato europeo perché, se i nostri partners continentali marciavano mediamente ad un +1,7%, noi racimolavamo a malapena uno zero virgola qualcosa, fino ad arrivare allo zero assoluto dellanno scorso.
Un Pil italiano che non è cresciuto in maniera adeguata, perché è basso il livello di competitività del Paese, per cui le nostre aziende non ce lhanno fatta a reggere ad una concorrenza che si è fatta sempre più spietata sui mercati internazionali.
Tutto questo malgrado abbiano potuto contare su uno dei più bassi costi della manodopera a livello continentale: basti considerare che i nostri lavoratori guadagnano in un anno mediamente 9mila euro in meno rispetto a quelli francesi e ben 14mila in meno rispetto ai tedeschi. Non ha pagato, dunque, lassalto feroce e continuato ai salari ed agli stipendi, come pure le molteplici misure ottenute dai nostri imprenditori per risparmiare ancora di più su questo versante: alla fin fine le detassazioni spinte, le leggi con le quali si è moltiplicato il lavoro precario al posto di quello vero, labolizione della scala mobile, la contrazione dei diritti nei luoghi di lavoro allo scopo di indebolire il potere contrattuale dei dipendenti e via elencando, hanno solo depresso il mercato interno come conseguenza della diminuzione del potere dacquisto complessivo della popolazione. Un sacrificio del tutto inutile visto che, per quanti sforzi possiamo fare in questo senso, ci troveremo sempre a fare i conti con Paesi dove la manodopera viene pagata ancora meno.
La strada da imboccare era unaltra, quella seguita da altri Paesi anche europei che hanno così potuto sottrarci significative quote di mercato: quella che porta ad accrescere il contenuto tecnologico delle merci sostenendo in modo adeguato la ricerca scientifica (pubblica e privata), linnovazione e la specializzazione delle produzioni. A ciò dovevamo aggiungere una politica di incentivazione a favore delle aziende disposte ad aggregarsi per abbandonare la dimensione ridotta che le penalizza al confronto con i grandi colossi multinazionali.
Dobbiamo perciò augurarci che il nuovo governo dellUnione sappia imboccare con decisione questa seconda strada, non prestando ascolto alle istanze di una miope borghesia imprenditoriale che continua a difendere ad oltranza gli strumenti della precarietà, quali la Legge Biagi, rinunciando a compiere quel salto di qualità che i tempi richiedono: una classe imprenditoriale non ancora appagata dallessere riuscita a travasare in pochi anni una fetta assai consistente della ricchezza nazionale, corrispondente più o meno al 20% del totale, direttamente dalle tasche dei lavoratori alle casse del profitto e della rendita, tanto che torna ad invocare la privatizzazione di pezzi fondamentali dellindustria pubblica, nel nome di una sua presunta maggiore efficienza e rigore gestionale che lIstat nega, certificando, al contrario, una più elevata produttività del settore pubblico rispetto a quella del settore privato, ed ugual cosa dicasi per i livelli retributivi e per la valorizzazione delle capacità professionali.
A ciò deve necessariamente aggiungersi una ridistribuzione del reddito che renda giustizia ai ceti sociali che più hanno pagato gli errori fatti, e questo anche nellinteresse dellUmbria, considerato che - come andiamo sostenendo da tempo - i nostri livelli retributivi e pensionistici si situano al di sotto della media nazionale. Che la nostra economia zoppichi ce lo attestano ora anche i dati più recenti fornitici da Unioncamere-Prometeia, secondo i quali il Pil umbro sarebbe addirittura sceso di uno 0,6% nel 2005, misurando un malessere le cui prime avvisaglie si erano già manifestate lanno precedente quando, sia pure in un quadro di Pil regionale in soddisfacente aumento (+2,8%, il doppio di quello italiano), il comparto industriale misurato a se stante aveva tuttavia segnato un -3,2%. Un dato comunque inaspettato, quello di Unioncamere-Prometeia, probabilmente estrapolato da una ricerca a carattere nazionale e perciò da verificare con attenzione, auspicando che la Regione si doti al più presto di una sua struttura autonoma, in grado di monitorare con maggiore costanza e scienza landamento dei fenomeni economici e sociali rispetto ai quali è chiamata ad articolare le opportune risposte.
Né la situazione migliora sul fronte pensionistico, con lInps che, nel suo rapporto 2005, attesta come limporto medio regionale di appena 583,4 euro mensili sia tra i più bassi in Italia, con ciò confermando quanto ci aveva detto pochi mesi prima la Cgia di Mestre, parlando di un importo medio umbro annuo, al lordo, di soli 8.228,89 euro, contro una media nazionale di 9.132,52 euro.
A ciò va aggiunto il dato sul numero dei protesti fornitoci dallAgenzia delle Entrate, che nel 2004 sono stati in Umbria 23.800, per la maggior parte riferiti a vaglia cambiari o a tratte di modesto importo, indice di un fenomeno alimentato soprattutto da unaccresciuta difficoltà a sbarcare il lunario. Come pure il dato Inps relativo allevasione contributiva. che ci fa intuire la presenza nella nostra regione di un vasto mercato di attività in nero o comunque precarie, fonte, come è logico che sia, di pensioni misere che vengono ancora più impoverite da uninflazione che da noi non ha morso meno che altrove (labnorme incremento degli affitti registrato soprattutto a Perugia insegna).
Avendo in testa questi numeri cè da restare meravigliati sfogliando il recentissimo dossier de Il sole 24 ore che indica un evidente balzo in avanti della qualità della vita in Umbria, tanto nella provincia di Perugia che in quella di Terni. La spiegazione logica al riguardo sta nel fatto che linsieme delle nostre istituzioni locali, a partire dalla Regione, è riuscito a consolidare, aiutato certamente da un mondo del volontariato e del privato sociale che è cresciuto in termini esponenziali, oltre che da un elevato grado di coesione familiare che continua a mantenersi in Umbria, unarticolata rete di protezione sociale a tutela delle fasce più deboli della popolazione che ha contenuto con efficacia i fenomeni di abbandono e di isolamento. E quanto ci dicono anche i dati diffusi di recente da Auser Umbria, secondo i quali fra il 2004 ed il 2005 si è determinato un forte incremento dellintervento pubblico (+276,5%9) a sostegno di una popolazione anziana che è notevolmente cresciuta in termini numerici, volto soprattutto a favorirne la permanenza in famiglia.
Un Pil italiano che non è cresciuto in maniera adeguata, perché è basso il livello di competitività del Paese, per cui le nostre aziende non ce lhanno fatta a reggere ad una concorrenza che si è fatta sempre più spietata sui mercati internazionali.
Tutto questo malgrado abbiano potuto contare su uno dei più bassi costi della manodopera a livello continentale: basti considerare che i nostri lavoratori guadagnano in un anno mediamente 9mila euro in meno rispetto a quelli francesi e ben 14mila in meno rispetto ai tedeschi. Non ha pagato, dunque, lassalto feroce e continuato ai salari ed agli stipendi, come pure le molteplici misure ottenute dai nostri imprenditori per risparmiare ancora di più su questo versante: alla fin fine le detassazioni spinte, le leggi con le quali si è moltiplicato il lavoro precario al posto di quello vero, labolizione della scala mobile, la contrazione dei diritti nei luoghi di lavoro allo scopo di indebolire il potere contrattuale dei dipendenti e via elencando, hanno solo depresso il mercato interno come conseguenza della diminuzione del potere dacquisto complessivo della popolazione. Un sacrificio del tutto inutile visto che, per quanti sforzi possiamo fare in questo senso, ci troveremo sempre a fare i conti con Paesi dove la manodopera viene pagata ancora meno.
La strada da imboccare era unaltra, quella seguita da altri Paesi anche europei che hanno così potuto sottrarci significative quote di mercato: quella che porta ad accrescere il contenuto tecnologico delle merci sostenendo in modo adeguato la ricerca scientifica (pubblica e privata), linnovazione e la specializzazione delle produzioni. A ciò dovevamo aggiungere una politica di incentivazione a favore delle aziende disposte ad aggregarsi per abbandonare la dimensione ridotta che le penalizza al confronto con i grandi colossi multinazionali.
Dobbiamo perciò augurarci che il nuovo governo dellUnione sappia imboccare con decisione questa seconda strada, non prestando ascolto alle istanze di una miope borghesia imprenditoriale che continua a difendere ad oltranza gli strumenti della precarietà, quali la Legge Biagi, rinunciando a compiere quel salto di qualità che i tempi richiedono: una classe imprenditoriale non ancora appagata dallessere riuscita a travasare in pochi anni una fetta assai consistente della ricchezza nazionale, corrispondente più o meno al 20% del totale, direttamente dalle tasche dei lavoratori alle casse del profitto e della rendita, tanto che torna ad invocare la privatizzazione di pezzi fondamentali dellindustria pubblica, nel nome di una sua presunta maggiore efficienza e rigore gestionale che lIstat nega, certificando, al contrario, una più elevata produttività del settore pubblico rispetto a quella del settore privato, ed ugual cosa dicasi per i livelli retributivi e per la valorizzazione delle capacità professionali.
A ciò deve necessariamente aggiungersi una ridistribuzione del reddito che renda giustizia ai ceti sociali che più hanno pagato gli errori fatti, e questo anche nellinteresse dellUmbria, considerato che - come andiamo sostenendo da tempo - i nostri livelli retributivi e pensionistici si situano al di sotto della media nazionale. Che la nostra economia zoppichi ce lo attestano ora anche i dati più recenti fornitici da Unioncamere-Prometeia, secondo i quali il Pil umbro sarebbe addirittura sceso di uno 0,6% nel 2005, misurando un malessere le cui prime avvisaglie si erano già manifestate lanno precedente quando, sia pure in un quadro di Pil regionale in soddisfacente aumento (+2,8%, il doppio di quello italiano), il comparto industriale misurato a se stante aveva tuttavia segnato un -3,2%. Un dato comunque inaspettato, quello di Unioncamere-Prometeia, probabilmente estrapolato da una ricerca a carattere nazionale e perciò da verificare con attenzione, auspicando che la Regione si doti al più presto di una sua struttura autonoma, in grado di monitorare con maggiore costanza e scienza landamento dei fenomeni economici e sociali rispetto ai quali è chiamata ad articolare le opportune risposte.
Né la situazione migliora sul fronte pensionistico, con lInps che, nel suo rapporto 2005, attesta come limporto medio regionale di appena 583,4 euro mensili sia tra i più bassi in Italia, con ciò confermando quanto ci aveva detto pochi mesi prima la Cgia di Mestre, parlando di un importo medio umbro annuo, al lordo, di soli 8.228,89 euro, contro una media nazionale di 9.132,52 euro.
A ciò va aggiunto il dato sul numero dei protesti fornitoci dallAgenzia delle Entrate, che nel 2004 sono stati in Umbria 23.800, per la maggior parte riferiti a vaglia cambiari o a tratte di modesto importo, indice di un fenomeno alimentato soprattutto da unaccresciuta difficoltà a sbarcare il lunario. Come pure il dato Inps relativo allevasione contributiva. che ci fa intuire la presenza nella nostra regione di un vasto mercato di attività in nero o comunque precarie, fonte, come è logico che sia, di pensioni misere che vengono ancora più impoverite da uninflazione che da noi non ha morso meno che altrove (labnorme incremento degli affitti registrato soprattutto a Perugia insegna).
Avendo in testa questi numeri cè da restare meravigliati sfogliando il recentissimo dossier de Il sole 24 ore che indica un evidente balzo in avanti della qualità della vita in Umbria, tanto nella provincia di Perugia che in quella di Terni. La spiegazione logica al riguardo sta nel fatto che linsieme delle nostre istituzioni locali, a partire dalla Regione, è riuscito a consolidare, aiutato certamente da un mondo del volontariato e del privato sociale che è cresciuto in termini esponenziali, oltre che da un elevato grado di coesione familiare che continua a mantenersi in Umbria, unarticolata rete di protezione sociale a tutela delle fasce più deboli della popolazione che ha contenuto con efficacia i fenomeni di abbandono e di isolamento. E quanto ci dicono anche i dati diffusi di recente da Auser Umbria, secondo i quali fra il 2004 ed il 2005 si è determinato un forte incremento dellintervento pubblico (+276,5%9) a sostegno di una popolazione anziana che è notevolmente cresciuta in termini numerici, volto soprattutto a favorirne la permanenza in famiglia.
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