SENZA SCALA MOBILE I SALARI ITALIANI...
SENZA SCALA MOBILE I SALARI ITALIANI SONO PRECIPITATI AI LIVELLI PIU' BASSI NELLE GERARCHIA INTERNAZIONALE. LA CONQUISTA DI UNA NUOVA SCALA MOBILE E' NECESSARIA PER LA PROMOZIONE SOCIALE E DEMOCRATICA DELL'INTERO PAESE
Perché i salari italiani, che un tempo figuravano dignitosamente al confronto con quelli europei, sono scesi ad un livello tale da collocarci ormai agli ultimi gradini in seno alla Ue?
La risposta che si va facendo sempre più strada, trovando un numero sempre maggiore di assertori, sta nellabolizione della scala mobile che fu imposta ai lavoratori italiani nel 1992.
Perché i salari italiani, che un tempo figuravano dignitosamente al confronto con quelli europei, sono scesi ad un livello tale da collocarci ormai agli ultimi gradini in seno alla Ue?
La risposta che si va facendo sempre più strada, trovando un numero sempre maggiore di assertori, sta nellabolizione della scala mobile che fu imposta ai lavoratori italiani nel 1992.
Da allora il potere dacquisto delle loro retribuzioni è andato via via riducendosi per effetto di due concause ben precise: la prima dovuta al fatto che è venuto a mancare quellautomatismo negli adeguamenti che sino ad allora le aveva mantenute più o meno in linea con lincremento del costo della vita, come che non sono successivamente riusciti a garantire gli assai aleatori dati forniti dallIstat e quelli altrettanto discutibili relativi allinflazione programmata che è risultata costantemente e fortemente al di sotto di quella reale; la seconda relativa al vezzo premurosamente coltivato dai datori di lavoro, e non contrastato a sufficienza dai governi che si sono susseguiti alla guida del paese, di far costantemente slittare i rinnovi contrattuali, lasciando trascorrere, talvolta per anni, le loro naturali scadenze.
Dobbiamo comunque soprattutto al venir meno della scala mobile la massima responsabilità per quella sterilizzazione dei salari italiani che ci ha portati nel volgere di poco più di due decenni ad un livello assai basso nella graduatoria internazionale, come ci attestano ormai tutte le statistiche, anche quelle extra comunitarie dellOcse, relative al peso reale delle buste paga nei 30 paesi più industrializzati del mondo, che collocano lItalia alla ventitreesima piazza.Ciò perché, con un potere dacquisto, al netto dellinflazione, di appena 16.242 euro annui, un lavoratore italiano single e senza figli, si colloca un bel po al di sotto dei 18.549 euro di media. E peggio ancora ci va se facciamo il paragone con il potere dacquisto reale dei lavoratori dei paesi che ci precedono, in primis i coreani e gli inglesi che in tasca si ritrovano più di 28 mila euro. Ma anche, solo per restare nella Ue, i lussemburghesi (24.897 euro), gli olandesi (23.298 euro) i norvegesi (22.579 euro), i tedeschi (21.235 euro), gli irlandesi (21.111 euro), gli austriaci (20.713 euro), i finlandesi (19.890 euro), i francesi (19.731 euro), i belgi (19.729 euro), i danesi (18.735 euro) e perfino gli spagnoli (16.720 euro) se la cavano meglio di noi.
Ma non è tutto qui, perché successivamente allabolizione della scala mobile che, ricordiamolo, fu contrastata unicamente dalla Cgil e dal vecchio PCI (mentre le altre due centrali sindacali nazionali, lCisl e Uil, la sostennero colpevolmente), vennero introdotti nel nostro paese altri istituti che hanno ulteriormente aggravato la situazione dei ceti produttivi italiani. Primo fra questi il decreto legislativo 29 del 1993 che ha prodotto sconquassi a non finire nel pubblico impiego ed in favore del quale si espressero, purtroppo, anche influenti settori della sinistra moderata italiana di allora. Si tratta del provvedimento con il quale venne introdotta in Italia la privatizzazione dellassetto contrattuale dei lavoratori pubblici (statali, parastatali, enti locali, ecc.) che, con lintroduzione anche in questo comparto del cottimismo di presunti meriti, fatto salvo un ristretto gruppo di privilegiati baciato dalla lotteria delle facili promozioni, ha impoverito tutti gli altri.
Gli effetti più deleteri li ha prodotti nella scuola, con lintroduzione del cosiddetto managero dirigente, che hanno trovato persino la sfacciataggine di definire datore di lavoro, ma anche nel resto le ripercussioni sono state profonde e negative dato che nellintero settore pubblico furono cancellati i ruoli che in precedenza garantivano la dignità professionale dei lavoratori e quegli scatti di anzianità che ne garantivano, invece, la progressione economica.
Tutto questo sacrificato sullaltare degli affari che si volevano combinare anche nelle istituzioni pubbliche, mirando soprattutto alla gestione dei servizi che queste sono demandate a prestare ai cittadini, al fine di avvantaggiare ancora una volta una ristretta cerchia di pochi a detrimento dei diritti di tutti gli altri. E siccome, si sa, gli affari si realizzano solo se si contrae al massimo la spesa e perciò la qualità dellofferta (sanità, trasporti, sicurezza, formazione, ecc.), la naturale conseguenza di tale scelta è stata il diffondersi di un precariato sempre più vasto anche nel pubblico impiego, resosi necessario per sopperire a tassi di spesa che si andavano riducendo tanto da collocarci oggi allultimo posto nel continente, nel rapporto percentuale fra gli investimenti con i quali dobbiamo garantirci il futuro ed il prodotto interno lordo.
Proprio per costruire un futuro più sereno dobbiamo invece rompere la logica perversa che ci ha portato allattuale situazione di stallo, aprendo un fronte di lotta per la conquista di una nuova scala mobile e mettere in discussione anni e anni di subalternità del mondo del lavoro. Questo è urgente da fare non solo nel nome di una maggiore equità salariale, ma anche per laffermazione di questioni di principio che attengono più in generale alla promozione democratica e sociale del paese.
Dobbiamo comunque soprattutto al venir meno della scala mobile la massima responsabilità per quella sterilizzazione dei salari italiani che ci ha portati nel volgere di poco più di due decenni ad un livello assai basso nella graduatoria internazionale, come ci attestano ormai tutte le statistiche, anche quelle extra comunitarie dellOcse, relative al peso reale delle buste paga nei 30 paesi più industrializzati del mondo, che collocano lItalia alla ventitreesima piazza.Ciò perché, con un potere dacquisto, al netto dellinflazione, di appena 16.242 euro annui, un lavoratore italiano single e senza figli, si colloca un bel po al di sotto dei 18.549 euro di media. E peggio ancora ci va se facciamo il paragone con il potere dacquisto reale dei lavoratori dei paesi che ci precedono, in primis i coreani e gli inglesi che in tasca si ritrovano più di 28 mila euro. Ma anche, solo per restare nella Ue, i lussemburghesi (24.897 euro), gli olandesi (23.298 euro) i norvegesi (22.579 euro), i tedeschi (21.235 euro), gli irlandesi (21.111 euro), gli austriaci (20.713 euro), i finlandesi (19.890 euro), i francesi (19.731 euro), i belgi (19.729 euro), i danesi (18.735 euro) e perfino gli spagnoli (16.720 euro) se la cavano meglio di noi.
Ma non è tutto qui, perché successivamente allabolizione della scala mobile che, ricordiamolo, fu contrastata unicamente dalla Cgil e dal vecchio PCI (mentre le altre due centrali sindacali nazionali, lCisl e Uil, la sostennero colpevolmente), vennero introdotti nel nostro paese altri istituti che hanno ulteriormente aggravato la situazione dei ceti produttivi italiani. Primo fra questi il decreto legislativo 29 del 1993 che ha prodotto sconquassi a non finire nel pubblico impiego ed in favore del quale si espressero, purtroppo, anche influenti settori della sinistra moderata italiana di allora. Si tratta del provvedimento con il quale venne introdotta in Italia la privatizzazione dellassetto contrattuale dei lavoratori pubblici (statali, parastatali, enti locali, ecc.) che, con lintroduzione anche in questo comparto del cottimismo di presunti meriti, fatto salvo un ristretto gruppo di privilegiati baciato dalla lotteria delle facili promozioni, ha impoverito tutti gli altri.
Gli effetti più deleteri li ha prodotti nella scuola, con lintroduzione del cosiddetto managero dirigente, che hanno trovato persino la sfacciataggine di definire datore di lavoro, ma anche nel resto le ripercussioni sono state profonde e negative dato che nellintero settore pubblico furono cancellati i ruoli che in precedenza garantivano la dignità professionale dei lavoratori e quegli scatti di anzianità che ne garantivano, invece, la progressione economica.
Tutto questo sacrificato sullaltare degli affari che si volevano combinare anche nelle istituzioni pubbliche, mirando soprattutto alla gestione dei servizi che queste sono demandate a prestare ai cittadini, al fine di avvantaggiare ancora una volta una ristretta cerchia di pochi a detrimento dei diritti di tutti gli altri. E siccome, si sa, gli affari si realizzano solo se si contrae al massimo la spesa e perciò la qualità dellofferta (sanità, trasporti, sicurezza, formazione, ecc.), la naturale conseguenza di tale scelta è stata il diffondersi di un precariato sempre più vasto anche nel pubblico impiego, resosi necessario per sopperire a tassi di spesa che si andavano riducendo tanto da collocarci oggi allultimo posto nel continente, nel rapporto percentuale fra gli investimenti con i quali dobbiamo garantirci il futuro ed il prodotto interno lordo.
Proprio per costruire un futuro più sereno dobbiamo invece rompere la logica perversa che ci ha portato allattuale situazione di stallo, aprendo un fronte di lotta per la conquista di una nuova scala mobile e mettere in discussione anni e anni di subalternità del mondo del lavoro. Questo è urgente da fare non solo nel nome di una maggiore equità salariale, ma anche per laffermazione di questioni di principio che attengono più in generale alla promozione democratica e sociale del paese.
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