mercoledì 26 gennaio 2011

L'Italia "rampante" anni Ottanta: Ottanta: l'eterno presente che non passa

Tonino Bucci


Per qualche ironia della cabala l'anniversario della fondazione del Pci e quello dello scioglimento - entrambi a cifra tonda quest'anno - cadono a pochi giorni l'uno dall'altro. Venerdì scorso si è celebrato il novantesimo della nascita del PcdI. Il prossimo 3 febbraio saranno invece vent'anni dalla data dello scioglimento del Pci, sancito nel congresso della Bolognina nel 1991, quello della rottamazione occhiettiana per intendersi. Coincidenze a parte, nelle iniziative organizzate nei giorni scorsi sul partito comunista italiano i due discorsi - l'uno sulle origini di una storia politica dai tratti originali, l'altro sulla inspiegabilità della sua fine, una sorta di suicidio collettivo - hanno finito per coincidere in base a una logica interna ai fatti. Il riferimento non è soltanto alla mostra promossa dalla fondazione Istituto Gramsci, Avanti Popolo. Anche nel convegno 21 gennaio 1921, pensando il futuro - che si è tenuto a Roma lo scorso venerdì - le due questioni, origini e fine, si sono intrecciate. Per tutta la sua durata, quella del Pci, da qualunque lato la si consideri, è una storia complessa, risultato, fin dalla scissione di Livorno, di una combinazione di circostanze storiche e scelte politiche, di situazioni oggettive e intelligenza strategica di un gruppo dirigente culturalmente attrezzato. Per dirla in altro modo, la scissione del '21 è figlia della rivoluzione russa del '17 e del movimento comunista internazionale, ma anche dell'empasse del socialismo italiano, incapace di dare una direzione politica alle occupazioni delle fabbriche nel biennio '19-'20. Il radicamento di questo partito nella società italiana - e nella classe operaia italiana, non dimentichiamolo - è stato il frutto della capacità di stare all'interno dei processi collettivi e storici della vita pubblica italiana, dall'antifascismo alla Resistenza, dalla Costituzione alle spinte di democratizzazione degli anni Settanta. La storia del Pci è stata anche una storia nazionale.

C'è però un'altra complessità, non meno difficile da perlustrare rispetto alle origini delle vicende del Pci, ed è quella che riguarda la sua fine, le ragioni di uno scioglimento avvenuto senza incontrare la resistenza della parte maggioritaria del corpo militante che tutto sommato elaborò la faccenda come si trattasse di un destino scritto. Neppure quella parte del gruppo dirigente in dissenso con lo scioglimento del partito e con la derubricazione della questione comunista in Italia fu capace di elaborare una strategia politica di comune accordo. Alla decisione di uscire e di dare vita a Rifondazione comunista di una parte si contrappose la scelta di un'altra parte di rimanere nel gorgo del neonato Pds. Ma ancora più arduo è ricostruire la costellazione di vicende storiche e di ideologie che hanno fatto da sfondo alla volontà di smantellamento del Pci, Non è un compito facile elencare i fatti, i condizionamenti oggettive e, soprattutto, le categorie alle quali si è fatto ricorso per legittimare il processo di scioglimento del partito comunista. Quali circostanze hanno reso operativa la volontà di scioglimento? E da dove nasce l'anticomunismo postumo? Soprattutto, non sarà che a vent'anni di distanza siamo ancora all'interno degli effetti di lunga durata della scomparsa del Pci? Di questo, per esempio, si è discusso nel convegno sopra citato, 21 gennaio 1921, pensando il futuro, al quale hanno partecipato Guido Liguori, Gianpasquale Santomassimo, Luciana Castellina, Aldo Tortorella, Mario Tronti, Eleonora Forenza e Paolo Ferrero. Una tesi, tra le altre, merita d'essere ripresa: la fine del Pci assomiglia molto più a una storia événementielle che a una moviola decennale. O, meglio, la fine del Pci è un evento contemporaneo, tutt'altro che concluso. «Non convince - sostiene Santomassimo - quel ripassare alla moviola la storia del Pci per cercare il punto in cui abbiamo sbagliato. Parliamo di una storia collettiva, non solo delle scelte di un gruppo dirigente». Non si tratta di andare troppo indietro nel tempo, «la crisi del Pci si consuma in un arco di tempo molto breve. E' più utile cercare vicino, nel passato a noi più prossimo». Un passato prossimo che assomiglia di fatto a un presente, a un eterno presente, che ha proprio l'aria di non voler passare, di rimanere fermo agli anni Ottanta, al craxismo, all'individualismo trionfante, all'incubazione del berlusconismo. Gli anni Ottanta sono il laboratorio di costruzione degli italiani di oggi. «Gli anni Ottanta sono all'origine anche del berlusconismo, che fu nel decennio successivo l'ascesa - più che mai "resistibile", da parte di avversari meno disarmati e insipienti - di una cultura diffusa, di un sistema di potere economico, politico e mediatico che avrebbero potuto essere contrastati e sconfitti. Quegli anni sono in fondo l'eterno presente in cui vivono o si illudono ancora di vivere gli italiani di oggi, sono gli anni in cui si è costruita la loro mentalità». Solo in Italia quegli anni «daranno luogo a un esito come quello che stiamo vivendo da molti anni: predominio di una destra populista e retriva, inabissamento della sinistra e sfarinamento del suo insediamento nel territorio». L'ondata di individualismo produce nel nostro paese «un privatismo sociale di fatto regressivo». Saranno anni di «riscossa proprietaria», inaugurati dalla sconfitta operaia alla Fiat nel 1980. «Ci sarà progressivamente la cancellazione delle "tute blu" dall'immaginario diffuso degli italiani: non perché gli operai cessino di esistere, ma perché si conviene di non parlarne più. Anche gran parte della cultura di sinistra accetta questa convenzione». La formula "meno Stato, più mercato" diventa il mantra. «Per la prima volta nella storia il liberismo diviene ideologia di massa, popolare e populista». Craxi è il protagonista politico assoluto del decennio, la figura in cui si incarna la crisi dell'etica pubblica e l'emergenza della questione morale evocata quasi con disperazione dall'ultimo Berlinguer. Ma quel che più interessa è l'intreccio che si sedimenta nel lessico craxiano tra «revisionismo istituzionale» e «revisionismo storico». «Sarà la campagna craxiana - parole ancora di Santomassimo - su una "Grande Riforma", dalle fattezze vaghe ma certamente "decisioniste" e segnate dal rafforzamento dell'esecutivo, a rilanciare antiche tematiche della diffidenza o denigrazione verso antifascismo e Resistenza. Ma il fatto nuovo sarà che per la prima volta entrerà nel mirino anche la Costituzione. Non solo la seconda parte, ma anche i suoi principi fondamentali, inquinati da cattocomunismo e influenze "sovietiche", restii a riconoscere pienamente centralità e dominio del mercato e dell'iniziativa privata». L'identità del Pci comincia a vacillare. I problemi iniziano a manifestarsi già negli ultimi anni di vita di Berlinguer. L'impegno a costruire una strategia di lungo periodo non è sufficinte a coprire «l'assenza di una strategia nel breve e medio periodo e dal venir meno di una politica delle alleanze». La linea di alternativa alla Dc che girava pagina rispetto al compromesso storico, risulta «nervosa e solitaria». «Le proposte concrete avanzate dai comunisti si risolvono in slogan come il "governo degli onesti" o il "governo del Presidente"». Formule - afferma Santomassimo - che altro non sono che la traduzione degli editoriali di Scalfari e della Repubblica, ulteriore segno di debolezza di un gruppo dirigente che si fa dare la linea dalla grande stampa. Dopo la morte di Berlinguer il processo di spappolamento accelera, prende la forma di «una radicale dismissione di identità e nell'acquisizione in blocco o per frammenti di identità altrui», attingendo nel riformismo (ormai sinonimo di moderatismo) o in un eclettismo vago e confuso. La vecchia tradizione all'analisi della società e dei suoi mutamenti viene scalzata di colpo da una «superficiale infarinatura politologica», l'ingegneria istituzionale diviene l'unica chiave di volta della proposta che i postcomunisti saranno in grado di rivolgere alla società italiana. «Ci si illude che sistema elettorale e rinnovamento istituzionale possano sostituire la politica». Essere di sinistra, da questo momento, significherà occuparsi di pace, ambiente, diritti civili, ma sbiadisce del tutto la «ragione sociale»: la «rappresentanza e la difesa del mondo del lavoro». Scompare così un partito popolare e di massa dalla parte dei lavoratori. «E' un grande vuoto che non è stato colmato». Non solo perché la sinistra italiana si è privata di efficacia politica, ma anche perché la scomparsa del Pci ci ha sottratto - per dirla con le parole di Paolo Ferrero - la possibilità di una storia autonoma di parte, di una storia dei subalterni. «Finché c'era il Pci, c'era una narrazione». Oggi la storia è stata riscritta e «senza una memoria viene meno la possibilità di fare politica». L'esito estremo della cancellazione di una storia dei subalterni è la demonizzazione della parola comunismo, l'approdo ultimo di una società, si potrebbe dire, "disincantata", disconnessa dalla politica, privata di ogni desiderio di trascendimento della realtà così com'è.





25/01/2011

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