venerdì 27 aprile 2007

L’EMERGENZA IDRICA E’ FIGLIA DELLO SFRUTTAMENTO CAPITALISTICO DELL’AMBIENTE. UN PIANO NAZIONALE DELLE ACQUE PER RIORDINARE LE AZIENDE E GARANTIRE QUESTA RISORSA PER TUTTI

Ciclicamente i capricci della natura ripropongono alla nostra attenzione la questione acqua e tutti diventiamo più virtuosi, imprecando contro gli sprechi ed invocando misure urgenti per regolamentare in maniera più corretta l’uso di questo bene prezioso. Ricordiamo che, immediatamente dopo le ormai obliate alluvioni del Po degli anni cinquanta, era stato da tutti invocato un “piano nazionale delle acque” e che la stessa proposta venne ripetuta dopo la disastrosa alluvione di Firenze.

Poi, passata l’emergenza, di questo buon proposito ci siamo tutti improvvidamente scordati.

Oggi, causa l’eccezionale siccità che ci ha colpiti, la questione è tornata drammaticamente d’attualità: fiumi e laghi sono in crisi e così anche le falde dalle quali attingiamo l’acqua che ci serve per vivere e i nostri imprenditori sono tornati a farsi sentire.

Gli industriali, che invocano rapide misure, non tanto per ridare riequilibrio ad un ambiente che anche grazie al loro operato è stato profondamente degradato, quanto per scongiurare il pericolo che le nostre centrali idro-termoelettriche smettano di funzionare, facendo venire meno l’energia necessaria per far girare i loro stabilimenti e paventando comunque un rialzo dei costi tale da mettere in crisi le loro produzioni; gli agricoltori che vedono minacciati i loro raccolti ed invocano provvidenze pubbliche per reintegrare i guadagni perduti, e poco importa dei rincari già in corso dei quali a farne le spese sono i consumatori.

In questo Paese la “merce” che scarseggia più di ogni altra è l’assunzione della responsabilità. I disastri del passato che abbiamo ricordato e la siccità attuale sono i prodotti di una politica di rapina del suolo che è stata compiuta nel nome del profitto, fino a determinare cambiamenti climatici che si teme siano ormai irreversibili.

Ignorando bellamente gli allarmi lanciati dagli scienziati si è permesso di costruire strade, case, villaggi turistici ed alberghi, fabbriche ed allevamenti zootecnici lungo le vie naturali che erano riservate allo scorrimento delle acque; si sono disboscati vasti territori, producendo frane e dissesti a non finire; si sono cementificati gli argini dei fiumi; sono stati autorizzati prelievi abnormi di acqua per le industrie e per le coltivazioni e tollerato l’inquinamento, tanto delle acque di superficie che quelle più profonde, ad opera di imprenditori senza scrupoli; si sono facilitati anche gli sprechi delle famiglie, ritardando la realizzazione della “doppia rete”, aiutando con ciò lo sperpero di altre enormi quantità di buona acqua potabile che è stata usate per lavare i piatti e gli indumenti e per scaricare i nostri W.C.; si è consentito di scaricare nell’atmosfera masse impressionanti di veleni ai quali dobbiamo il cosiddetto “effetto serra” che tanto ci preoccupa. Non contenti di ciò abbiamo perfino legalizzato, con appropriate sanatorie, le opere abusive che erano state realizzate in aree che avrebbero dovuto restare libere per il moto delle acque, sino ad arrivare alla perla pescata dal governo Berlusconi che, poco prima di lasciare, ha pensato bene di affossare interamente una legge sulla difesa del suolo e delle acque, la 183, che era stata varata dal Parlamento nel 1983 e che il governo attuale non ha ancora ripristinato. Il tutto secondo la solita assurda filosofia di svincolare la libertà di impresa da ogni “inutile” laccio o lacciolo.

Per onesta dobbiamo riconoscere che in larga parte i contenuti della 183 erano stati disattesi, soprattutto per quanto riguarda la definizione delle competenze in materia di gestione delle acque: prevedeva la creazione di poche autorità di bacino, talvolta anche a carattere interregionale, alle quali demandare il controllo completo del ciclo, con la contemporanea eliminazione della miriade di enti, talvolta anche minuscoli, che tuttora continuano ad operare.

La brama del sottogoverno, che si nutre di consigli di amministrazione e di posti comodi e ben retribuiti per i “clientes”, ha invece continuato a prevalere, eppure questa è la sola strada che ci resta da percorrere se vogliamo ridare priorità alla natura ed alle sue leggi, anziché agli affari; se vogliamo liberare gli argini, ripulire i greti dei fiumi e dei torrenti, imporre rigidi vincoli di fabbricazione e limiti precisi agli usi industriali, agricoli e domestici; se vogliamo ammodernare una rete di adduzione e distribuzione ormai obsoleta che disperde, attraverso milioni di falle, larga parte dell’acqua che dovrebbe trasportare e se vogliamo accumulare d’inverno quella che ci è utile d’estate.

Certo, per fare questo dovremo anche sottrarre l’acqua alla speculazione privata, come andiamo sostenendo da tempo, e riordinare in tal senso le aziende che in questi anni sono state improvvisamente affidate ad imprenditori che hanno anteposto il loro personale interesse su quello pubblico. Ciò anche per consentire loro di coordinarsi su ambiti territoriali assai più vasti degli attuali ed ottenere importanti economie di scala, utili per assicurare ai cittadini, ovunque essi risiedano, parità ed equità di trattamento.

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