domenica 1 aprile 2007

I LAVORATORI ITALIANI SONO I PEGGIO PAGATI D’EUROPA E QUELLI UMBRI STANNO ANCORA PEGGIO. I DATI ALLARMANTI DI UNA RICERCA DELL’EURISPES. SUPERATI ANCHE DA SPAGNA E GRECIA. PER LO SVILUPPO NON SERVONO I BASSI SALARI, MA PIU’ INVESTIMENTI PRODUTTIVI, PIU’ RICERCA E MIGLIORI CONDIZIONI DI LAVORO

Quello che già sapevamo ha trovato piena conferma: le retribuzioni italiane sono fra le più basse in Europa. I nostri lavoratori sono diventati più “poveri” degli altri perché guadagnano molto meno dei loro colleghi del vecchio continente: appena 21,03 euro mediamente per ora lavorata contro i 30,7 euro di un danese. La conferma ce l’ha data ieri l’Eurispes, che ci colloca al quart’ultimo posto con un salario medio annuo lordo di 22.053 euro, un abisso in meno al confronto con il paese che vanta i salari più ricchi che è ancora la Danimarca, con ben 42.484 euro, seguita nell’ordine da Svezia, Belgio e Francia.

Dietro di noi figurano solo Spagna, Grecia e Portogallo, ma se la stessa cosa la vediamo dal punto di vista del salario netto, ovvero depurato il lordo dal “cuneo fiscale” che da noi è particolarmente oneroso, allora la nostra posizione si fa ancora più critica perché con i poco più di 16.000 euro che di media sono restati nelle tasche dei nostri lavoratori nel corso del 2006, anche Spagna e Grecia ci hanno superato ed a salvare il nostro “onore” è rimasto il solo Portogallo, ma c’è da domandarsi per quanto tempo ancora.

Il crollo italiano è avvenuto, fra il 2000 e il 2005, un quinquennio che si è rivelato tremendo per i nostri lavoratori, proprio quando il “Re Mida” che ci governava prometteva più benessere per tutti gli italiani. Ebbene, mentre le nostre retribuzioni salivano appena del 13,7% in questo arco di tempo, nel resto d’Europa la crescita media è stata nettamente più alta: il 18%, con il record assoluto che spetta alla Gran Bretagna con un, per noi stratosferico, 27,8%.

Ciò che deve preoccuparci più di ogni altra cosa è l’accelerazione verso il basso che si è registrata in Italia negli anni più recenti: infatti nel 2004 e nel 2005 le nostre retribuzioni nette erano ancora superiori a quelle greche ed appena inferiori a quelle spagnole, ma nel 2006 vi è stato il sorpasso anche da parte della Grecia ed il perché l’Eurispes ce lo spiega così: «di fronte ad una crescita dei salari in Europa dell’ordine del 15% in tre anni (con punte di oltre il 30%, come in Gran Bretagna ed in Grecia) il salario italiano si è accresciuto solo del 4,1%, la crescita più contenuta fra tutti i paesi del Vecchio Continente».

A ciò ha contribuito certamente anche l’elevata inflazione italiana (assai significativo al riguardo il titolo che l’Eurispes ha dato alla sua ricerca: “Povero lavoratore: l’inflazione ha prosciugato i salari”) che, con oltre il 20% dal 2004 al 2006, è stata assai più netta della crescita delle retribuzioni che, come abbiamo visto, si è fermata al 4,1%. Più che giustificata, perciò, la nostra richiesta di uno strumento (la “nuova scala mobile”) che metta al riparo i salari e le pensioni dalla perdita del potere di acquisto determinata dal divario esistente fra l’inflazione “programmata” e quella “reale”, con la prima, sulla base della quale vengono poi decisi gli adeguamenti salariali e pensionistici ed i rinnovi contrattuali, che è largamente e costantemente sottostimata dai governi.

Una richiesta che assume particolare valore in Umbria, regione che, come ci ha ricordato di recente anche il segretario regionale della Cisl, Pierluigi Bruschi, si distingue per una media retributiva inferiore di circa il 10% rispetto a quella nazionale; il che vuol dire che i nostri lavoratori e i nostri pensionati escono ancora peggio dal confronto con i loro colleghi europei, facendo così tornare di attualità quella che abbiamo chiamato “la questione salariale umbra”.

Ma questa ricerca dell’Eurispes ci dice anche che se le cose sono andate male per l’Italia in questi anni, questo nostro fallimento non è certo imputabile all’euro, come sostiene Berlusconi, perché altrimenti non ci spiegheremmo i grandi passi in avanti che hanno compiuto gli altri Stati che al pari di noi hanno aderito alla moneta unica. Ci dice, invece, che la strada da seguita in Italia, ed ancor più in Umbria, delle basse retribuzioni e della erosione dei diritti dei lavoratori quale mezzo per competere sui mercati internazionali non paga, come non pagano i distretti industriali specializzati in settori obsoleti, le speculazioni finanziarie e la precarietà del lavoro.

Necessita, al contrario, un mutamento di 180 gradi nell’approccio alla questione della bassa produttività italiana, puntando a far crescere un personale più qualificato e meglio retribuito, alla creazione di filiere produttive tecnologicamente avanzate, a mettere in campo maggiori investimenti produttivi, per la ricerca e l’innovazione, prendendo esempio da ciò che è stato fatto nei Paesi che in questi anni si sono sviluppati più ed assai più rapidamente di noi.

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