mercoledì 7 giugno 2006

PRECARIETÀ DEL LAVORO

PRECARIETÀ DEL LAVORO: FAR PAGARE LE TASSE A TUTTI PER REPERIRE RISORSE A VANTAGGIO DELLA SICUREZZA SOCIALE

La lettura prevalente del Piano di Lisbona fatta dai poteri economici forti italiani per incrementare il tasso di occupazione è stata quella della flessibilizzazione estrema dei rapporti di lavoro. Il risultato ultimo è stata la Legge 30 che porta a 42 le forme di lavoro atipico, determinando un’intricabile jungla, come ci rivela l’Istat, visto oggi si contano da noi dai 2 ai 2,6 milioni di lavoratori precari, corrispondenti ad un 12% circa del totale degli occupati. Percentuale che cresce però enormemente se ci limitiamo a considerare solo i giovani lavoratori, perché in tal caso ben il 58% dei nostri precari ha un’età inferiore ai 34 anni.

Questa situazione di estrema incertezza tende inoltre ad estendersi nel tempo, ovvero a protrarsi per un lungo periodo della vita. Significativa al riguardo la rilevazione fornitaci questa volta dal maggiore sindacato italiano, la Cgil, il cui ufficio studi denuncia che ad un anno di distanza dall’assunzione solo uno su dieci fra i nuovi assunti riesce a conquistare lo status di dipendente, cosa che, si badi bene, non vuol dire ancora certezza nel futuro dato che solo uno su venti degli stessi nuovi lavoratori si vede trasformare il contratto iniziale a tempo indeterminato.

All’atto pratico, il 91% dei parasubordinati in età compresa fra i 30 e i 35 anni risulta possessore di partita Iva, figurando statisticamente o come libero professionista o come titolare di azienda individuale, concorrendo perciò in misura determinante al miracolo -riguardo al quale si sono spese tante inutili parole- della presunta nascita di nuove aziende nel nostro Paese. Inoltre circa il 70% dei precari in età 30-40 anni non ha figli: chiaro segnale di una difficoltà reale a mettere su famiglia, quella contrassegnata con tutti i crismi del caso, prole compresa.
Uno stato di estremo disagio, dunque, che è aggravato da una mancanza assoluta di tutele frutto anche di uno Statuto dei lavoratori che, non riguardando le imprese con meno di 15 dipendenti, esclude di fatto quasi il 50% dei lavoratori italiani.

La precarietà ha dunque in Italia un impatto fondamentale sulla vita delle persone ed averlo sottolineato con forza durante la campagna elettorale rappresenta una delle chiavi della vittoria del centro sinistra, quella che gli ha consentito di spostare a suo favore masse consistenti del voto giovanile e femminile. E sì, perché dentro questo dramma, che interessa comunque strati sempre più ampi di lavoratori che più giovani non solo, appare ancora più difficile la condizione delle donne che incontrano maggiori difficoltà non solo a stabilizzare il loro rapporto di lavoro me anche ad affermarsi professionalmente.

Quello della precarietà è un dramma che ha assunto ormai dimensioni mondiali, e questo perché le logiche della globalizzazione non conoscono frontiere, ma la situazione ancora più drammatica in Italia per effetto, come abbiamo già detto, di una serie infinita di leggi che sonno andate a vantaggio esclusivo dei datori di lavoro e che il governo di centro sinistra ha l’obbligo di superare se non vuole deludere le speranze che si sono accese con la sconfitta di Berlusconi e del berlusconismo. Come? Una strada da seguire c’è l’indica ancora una volta il premier spagnolo, Zapatero, che, estremamente preoccupato per la dimensione che questo fenomeno ha assunto anche nel suo Paese, sta pensando ad un intervento legislativo per trasformare a tempo indeterminato tutti i lavori cosiddetti flessibili.
Ciò vuol dire che più di una correzione della Legge 30, si impone anche per noi la necessità di superare questa legislazione, cancellando le tante iniquità che vi sono contenute, come ad esempio, i lavori a chiamata. Nel contempo si pone la necessità non più rinviabile di costruire quella rete di protezione sociale a tutela del lavoro flessibile che oggi manca del tutto, affinché nessun lavoratore possa venire a trovarsi in una situazione di estrema solitudine e disperazione.

Alla fin fine, affinché il lavoro cosiddetto flessibile non si trasformi più in precariato a vita, ci corre l’obbligo di cancellare per prima cosa i grandi vantaggi fiscali che favoriscono, ad esempio, i contratti a progetti rispetto a quelli a tempo determinato, cosa che sta scritta a chiare lettere nel programma dell’Unione, ma dobbiamo pensare anche ad altre cose, a partire da un par-time più favorevole per i lavoratori, ad istituire una specifica indennità di disoccupazione che copra i periodi di mancato lavoro, unificare le casse integrazioni, estendere le tutele a tutti i settori merceologici, prevedere indennità per la maternità e la paternità, coprire i rischi di infortunio e di malattia.

Occorre, in altri termini, fare in modo che il lavoro a tempo indeterminato torni ad essere il lavoro tipicamente “normale” e che, al contrario, quello a termine rivesta il carattere della “eccezionalità” e temporaneità.
Per fare ciò è del tutto evidente che necessitano sufficienti risorse economiche (basti solo considerare che il rapporto fra la spesa italiana in protezione sociale rispetto a quella dei Paesi Nord-europei è di 1 a 7 a nostro sfavore), ma almeno i primi passi di senso dobbiamo percorrerli rapidamente e, come anche Prodi ha più volte sottolineato, l’unica strada che possiamo battere per far coincidere risanamento e sviluppo è quella di far pagare le tasse a tutti, conducendo una lotta serrata alla evasione e alla elusione fiscale.

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