lunedì 15 maggio 2006

DA BANKITALIA LA CONFERMA DEL MAGGIORE INDEBITAMENTO DEGLI ITALIANI

DA BANKITALIA LA CONFERMA DEL MAGGIORE INDEBITAMENTO DEGLI ITALIANI, DOVUTO, IN SPECIE IN UMBRIA, ANCHE AL BASSO LIVELLO DI RETRIBUZIONI E PENSIONI

Come si ricorderà, una delle armi principali sfoderate nel corso della recente campagna elettorale dalla cosiddetta Casa delle Libertà, era che il programma di un eventuale governo Prodi avrebbe gravemente attentato al risparmio degli italiani. Ora l’ultimo bollettino statistico di Bankitalia, con riferimento al mese di aprile, proprio il periodo in cui questa polemica si faceva più rovente, fa giustizia di questa menzogna, dimostrando come il nemico vero del risparmio degli italiani sia stato proprio il governo di Berlusconi e soci.


Infatti, nel corso di soli 12 mesi a partire dal marzo 2005 gli italiani si sono rivolti come mai prima al sistema creditizio per chiedere un prestito e questo ha fatto sì che l’indebitamento complessivo della nostra popolazione sia cresciuto in quel volgere di tempo del 45,9%. In moneta contante dignifica che fra mutui per l’acquisto della casa ed ancor più prestiti al consumo (quelli con durata superiore ai 5 anni hanno fatto registrare il maggiore incremento, con un +36,5%), oggi dobbiamo restituire tutti insieme alle banche italiane qualcosa come 403,8 miliardi di euro, una cifra che se la riportassimo alle vecchie lire incontreremmo serie difficoltà nel pronunciarla. Nel marzo 2005 il debito complessivo degli italiani era di 357,9 miliardi di euro, per cui in un solo anno questa massa debitoria si è incrementata del 12,8%, con un’accelerazione che è ha assunto contorni ancora più impressionanti nell’ultimo periodo: basti considerare che solo dal febbraio al marzo di quest’anno, questa crescita è stata di ben 6,4 miliardi di euro.

Per un lapalissiano ragionamento osserviamo che, se sono aumentati debiti e debitori è assai improbabile che nel contempo si sia ridotto il numero dei risparmiatori, pure se qualcuno che abbia visto accrescere, e non di poco, il suo gruzzolo, tanto in moneta contante che in titoli di credito, ci deve essere stato, facendoci maliziosamente pensare che le preoccupazioni di Berlusconi e soci sul futuro del risparmio italiano si riferivano assai probabilmente a quello loro e della ristretta élite di fortunati che li circonda. La grande massa degli italiani ha invece pagato per i tagli ai servizi sociali e per le privatizzazioni imposte con l’applicazione del principio neoliberista del “meno Stato, più mercato”, ritrovandosi più povera di prima avendo contratto nuovi debiti, anche in ciò non aiutata da una fase economica che ha visto riprendere la corsa verso l’alto dei tassi di interesse. Anche a questo riguardo le cifre di Bankitalia non lasciano margini di dubbio: nel marzo 2005 gli acquisti finanziati con prestiti ammontavano a 39,5 miliardi di euro, nel marzo di quest’anno hanno toccato la bella cifra di 45 miliardi di euro, con un quasi +16%.

Considerazioni, queste sulla maggiore povertà degli italiani, non campate in aria, trovando involontaria conferma perfino dal dipartimento per le politiche fiscali del ministero dell’economia che con le sue statistiche (che sono comunque da prendere con le molle, nascondendo un fortissimo tasso di evasione) ci dice che nel 2003 meno di 50 mila contribuenti italiani (per l’esattezza 49.645) ammettevano entrate superiori ai 200 mila euro annui, contro gli oltre 10 milioni che campavano con meno di 500 euro al mese. Insomma, i “Paperoni” italiani costituivano allora appena lo 0,12% dell’intera platea contributiva nazionale, mentre la povertà più assoluta abbracciava il 26% della popolazione italiana. Da questo quadro anche la nostra regione ne usciva fortemente penalizzata, considerato che la media pro-capite dei redditi dei contribuenti umbri era in quell’anno di 14.620 euro, ben al di sotto di quella nazionale di 15.670 euro. L’Umbria figurava al penultimo posto fra le regioni del centro-nord in una graduatoria chiusa dalle Marche (14.500 euro). Un vero abisso ci separava dalle regioni più ricche del Paese, come la Lombardia (18.630 euro), il Lazio (17.550), l’Emilia Romagna (17.200), il Piemonte (16.730), e via dicendo.

Tutto questo ci conforta in due cose che andiamo sostenendo da tempo: la prima è la necessità di una nuova scala mobile che ponga i redditi dei lavoratori al riparo almeno dall’inflazione; la seconda è che il basso livello del reddito degli umbri, non potendolo addebitare, come è giusto fare per le regioni ancora più svantaggiate del meridione, ad un basso tasso occupazionale, va ricercato unicamente nel gap di valore che separa le nostre pensioni e retribuzioni (per effetto anche di una maggiore incidenza del fenomeno “precarietà”) da quelle che si registrano in altre parti del Paese. Giusta, perciò, anche la sollecitazione che da altrettanto lungo tempo rivolgiamo, in specie alle organizzazioni sindacali umbre, affinché si apra una specifica vertenza regionale sul tema “retribuzioni”, considerato oltre tutto che da bassi stipendi e salari discendono direttamente ancora più basse pensioni.

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