venerdì 24 marzo 2006

I DANNI PRODOTTI DAL “PATTO SUL LAVORO DEL 1993” CHE HA BLOCCATO I SALARI E MOLTIPLICATO LA SPECULAZIONE. SI’ AD UNA PRONTA RIDISTRIBUZIONE DEL REDDITO

La rivolta dei giovani francesi contro il contratto di primo impiego proposto da Villepin, da loro visto come l’avvio di un processo di precarizzazione del lavoro all’italiana, deve indurci ad una riflessione sulle cause che hanno fatto sì che nell’ultimo anno nel nostro paese un nuovo lavoratore su due sia stato assunto con un contratto a tempo determinato. Un’assurdità della quale hanno fatto per primi le spese i nostri giovani, ma analoga sorte è toccata anche a quanti (e non sono pochi), espulsi dal mercato del lavoro in età adulta, hanno vanamente cercato una nuova collocazione.


C’è chi ha fatto risalire l’avvio di questo processo di decadimento all’ormai lontano 1993, anno in cui fu sottoscritto, fra sindacati ed imprenditori, quell’accordo sulla riduzione del costo del lavoro che fece ammettere all’allora direttore generale di Confindustria, Cipolletta, che a trarne un vantaggio maggiore furono le nostre imprese: “Il blocco dei salari, unito alla svalutazione della lira che si ebbe successivamente –osservò in seguito- consentì alle aziende italiane un recupero competitivo gigantesco”.

Se andiamo a guardare all’evoluzione di quell’accordo, ci accorgiamo però che il grande vantaggio che venne allora concesso ai nostri imprenditori non ha portato, come era stato dagli stessi promesso, ad un rafforzamento e consolidamento delle aziende italiane, e neppure a maggiori investimenti in innovazione che avrebbero fatto fare loro un salto di qualità per meglio competere sui mercati internazionali, assicurando conseguentemente una maggiore occupazione, perché in tal caso il “senso di responsabilità” dimostrato un quella circostanza dai sindacati sarebbe stato adeguatamente ripagato.

Al contrario a 13 anni di distanza dobbiamo prendere atto che i “salari fermi” dei nostri lavoratori sono stati compensati piuttosto con una maggiore rarefazione delle imprese italiane, come conseguenza di un processo di sgretolamento e frammentazione che le ha fatte diventare più piccole e prive delle necessarie risorse per innovare ed investire nella ricerca. Quindi soltanto una delle due parti contraenti del 1993, quella dei lavoratori, ha rispettato in pieno il compromesso sociale che venne allora raggiunto, mentre l’altra parte, quella imprenditoriale, si è votata piuttosto alla finanziarizzazione delle imprese, molte delle quali sono cadute nelle mani di speculatori senza scrupoli che hanno accumulato in questi anni rendite da capogiro, che oltre tutto non sono state neppure minimamente intaccate dal fisco.

Va infine osservato che il patto del 1993 ha prodotto danni ingentissimi non solo dal punto di vista economico, ma ancor più in termini di cultura d’impresa, avendo favorito la trasformazione stessa del concetto del “lavoro” che in precedenza veniva considerato una “risorsa” e poi si è man mano trasformato in un “costo”. Per cui, se sulle risorse è più che naturale investire per farle fruttare ancor di più (in questo caso, ad esempio, per una più adeguata formazione professionale), sui costi l’imperativo è quello di ridurli, o meglio ancora di abbatterli del tutto. La conseguenza diretta di ciò è stata che per essere assunti i nostri giovani si sono dovuti per forza di cose adattare a “costare” sempre di meno, anche a rischio di essere “presi” nel momento del bisogno e “scaricati” quando questo bisogno veniva a mancare, non importa se carichi di lauree o master.

Osserviamo questo perché messi in allarme da chi, a fronte di tanto sfacelo, anziché proporre una correzione di rotta, come è indicato nel programma di governo dell’Unione laddove si parla di misure per favorire una ridistribuzione del reddito a vantaggio dei ceti che sono stati maggiormente colpiti dalla politica di rapina di questi anni, utile anche per rilanciare consumi che languono da lungo tempo, guarda addirittura con speranza all’avvento di un nuovo “patto sociale” nel nome, ancora una volta, del rilancio delle imprese italiane.

Tutto come prima, dunque, tanto “per andare avanti!”, come recita un poco felice slogan elettorale. Avanti verso altri dieci anni di blocco dei salari, verso un ulteriore accrescimento della disuguaglianza di reddito tra le diverse categorie di cittadini, verso una ulteriore diminuzione, nell’era del massimo sviluppo dell’informatica, della nostra produttività del lavoro?

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